Il velo e i miei (e nostri?) automatismi perturbanti

Ieri, che era ancora estate mentre oggi è autunno, sbuffavo sudante nella stazione della RER A Gare de Lyon, dovevo andare verso Sucy-en-Brie a un fantomatico incontro lavorativo e non ne avevo voglia, ovviamente, essendo sabato e – simultaneamente – estate. Ad ogni modo, procedevo a passo spedito per il corridoio mentre vedo, là davanti, lontano, una suora di spalle, nerovestita come la madre di Azucena.

Oh, mi dico, da quant’è che non vedo una suora! E penso che in effetti di suore ce ne sono sempre meno in giro per l’Europa, figurati nei paesi laici come questo. Poi lei rallenta, io invece accelero, le passo vicino e vedo che non è una suora. E’ una donna con il chador. Una ragazza con il chador, anzi. O meglio, credo che fosse un chador perché confesso di avere qualche problema con la nomenclatura degli abiti: lasciava scoperto solo il volto, anche perché se no sarebbe incorsa in sanzione, ed era comperta dalla testa ai piedi da un abito nero, fino ai piedi. Era una ragazza giovane, più giovane di me immagino, e di fototipo II, tra l’altro.

Ecco, la cosa mi ha turbato molto. Non mi ha turbato tanto il fatto che avesse il velo quanto il fatto che non mi sarebbe sembrata una vittima del maschilismo e dell’oscurantismo se fosse stata una suora. Mi ha inquietato la mia reazione, il fatto che ritenga normale che una donna si metta un velo perché ha deciso di sposare Cristo mentre mi paia scandaloso che una donna si metta un velo per qualsiasi altro motivo. Intendiamoci: la conclusione che ne traggo è che pure il velo delle suore è segno di maschilismo e oscurantismo, come lo è quello delle prefiche o delle accabadore. Però è il mio automatismo, quel “Oh che curioso” quando si tratta di un fenomeno che fa parte del mio paesaggio visivo abituale che diventa “Che scandalo orribile!” quando si tratta di altro.

Beh, è un post un po’ banale, per essere pubblicato l’11 settembre. Ma è successo ieri e, insomma, ve lo volevo dire.

14 pensieri su “Il velo e i miei (e nostri?) automatismi perturbanti

  1. Secondo me il problema sta tutto nel fatto se sia una scelta o un obbligo (e per obbligo intendo anche un obbligo dettato da una cultura che non ti permette di essere libera di pensarla in maniera diversa). Sembrerà un paragone assurdo ma questa storia del velo mi fa sempre pensare alle spiagge di nudisti. Sono assolutamente favorevole al fatto che ci siano spiagge dove la gente ha la possibilità di stare nuda, se questo la fa sentire più libera ed in contatto con la natura. Ma trovo assurdo che in queste spiagge (o in molte di queste, non generalizziamo) sia vietato indossare il costume. In pratica è giusto che si senta libero solo chi è omologato ad un certo tipo di pensiero mentre chi (legittimamente) si può sentire in imbarazzo rispetto al suo corpo e non si sente a suo agio spogliandosi viene ostracizzato.
    Se il velo (per tornare in argomento) simboleggia una costrizione, morale e culturale, è giusto che sia combattuto, ma se simboleggia una libera scelta (al di là dei motivi, religiosi o meno) perché osteggiarlo? Perché vogliamo omologare altri al nostro modo di pensare? Al nostro concetto di libertà?

  2. Spero di aver inteso bene il tuo discorso, se è così non lo condivido, scusami. Vorresti dire che il velo imposto ad una musulmana ti scandalizza quanto il velo imposto ad una suora dai dettami religiosi? Non credo che abbiano potuto scegliere allo stesso modo.
    E poi perchè non ti scandalizza la gonna del prete? Anche quella è imposta.

  3. Cerco di spiegarmi meglio e rispondere a tutte e due, che sono stato confuso e fumoso e scusate.

    E’ evidente che al centro di tutto c’è la questione della scelta, del libero arbitrio, per farla figa. Intendo dire, se una donna decide liberamente di farsi suora e di mettersi il velo, va bene. Se una donna musulmana decide di mettersi il velo, va bene e non voglio dire che non possono metterselo, a dire che bisognerebbe vietarlo. Se è una scelta libera, entro certi limiti, facciano quel che credono.

    Premesso questo, però, non mi pare cambi la sostanza: cioè che se anche una donna si fa liberamente suora o si mette liberamente il velo, lo fa accettando un segno di, come dire per non sembrare esagerato?, subordinazione. Pure l’abito talare è una costrizione, pure la kippah. E infatti la questione non cambia, sono atti volontari di subordinazione. La sola differenza è che nel caso delle donne, la subordinazione è ancora nei fatti, in tutto il mondo anche se con enormi differenze. Per capirci: una ragazza venticinquenne italiana che decide di farsi suora, una donna francese che si converte all’Islam e decide di mettersi il velo, una adolescente iraniana o una donna afghana hanno ovviamente diversi gradi di consapevolezza, di libertà di scelta e questo mi è chiaro. Solo che stanno tutte e quattro ribadendo che, in quanto donne, devono rendere visibile la loro subordinazione.

    La cosa che mi turba è che mentre io (e voi e tutti) riconosciamo nel velo islamico un segno di sottomissione, quello della suora (o gli abbigliamenti che nascondevano le vedove italiane fino a non troppo tempo fa) ci pare soltanto un abbigliamento.

    Vabbè, non so se ho chiarito cosa volessi dire…

    1. Quello che vuoi dire è chiaro e io, nel mio intervento, ho estremizzato volutamente. Penso, però, che ci siano differenze sostanziali tra il velo di una suora e il chador di una donna musulmana. Te lo dimostra il fatto che ci sono ordini di suore che non portano il velo. E sono d’accordo anche con Lucy van Pelt quando dice che allora anche l’abito del prete è un segno di sottomissione. Non credo che sia necessariamente collegato alla condizione femminile questo fatto. Chi entra in un ordine, in una setta, in un’arma (anche Esercito e Carabinieri hanno una divisa) deve indossare, solitamente, una divisa o un certo tipo di abbigliamento. In qualche modo può essere una sottomissione ma è volontaria. E’ un modo per rendersi riconoscibili e dare testimonianza di quello di cui si fa parte.

    2. Sei stato chiarissimo ed in questo senso lo eri stato anche nel post. Solo che non vedo tutta questa subordinazione nell’abbigliamento religioso. Credo che entrare in chiesa o in moschea e coprirsi le spalle o togliersi le scarpe non siano un gesto di sottomissione, se non in senso molto molto lato, però fondamentale per chi ha fede. Anche il grembiulino di scuola lo è allora? O la divisa lavorativa? Tutti questi sono simboli di appartenenza più che di subordinazione, creano una comunità immediatamente riconoscibile, al cui interno senza dubbio vi saranno appartenenti più o meno consapevoli, ma allora lo stesso vale per gli emo, e scusa il paragone assolutamente provocatorio 😉

      1. No, ma non è così! Se io entro in sinagoga mi metto una kippah, se entro in una moschea mi tolgo le scarpe, se entro in una chiesa evito di farlo in costume da bagno, questo lo faccio per rispetto.

        Se però io, in quanto donna, devo mettermi un velo in testa per dimostrarmi pura (semplifico e banalizzo, sia chiaro) sottointendo che se non lo facessi, cioè se fossi quel che sono, sarei impura. Se io donna vedova devo vestirmi di nero e mettermi il velo, per dimostrare che soffro e che nessuno può avere accesso al mio corpo, lo faccio perché se no sarei una mignotta. Se io suora devo vestirmi da suora, lo faccio perché il mio corpo non deve essere un corpo.

        Gli emo o i bambini scuola portano una divisa, mi pare diverso.

    3. Ma io non la vedo per niente così, sai?
      Cioè: lasciamo perdere ovviamente la povera fanciulla che è costretta a mettersi il burqa anche se non vuole perché altrimenti viene lapidata, che ovviamente è un’altra storia. Ma se parliamo di abbigliamento religioso, (anche non-cattolico o non-cristiano, eh), io lo vedo affatto come una cosa di sottomissione. Sembra anche a me, proprio come a Lucy, una questione identitaria: io ho fatto questa scelta, io mi trovo in questo status, e dunque indosso un certo capo di abbigliamento per mostrare visivamente questo status al mondo.
      Domanda provocatoria, (ma anche no, in realtà): secondo te, qual è la differenza sostanziale fra una suora, che in quanto suora porta l’abito della sua Congregazione, e una donna sposata (ma pure un uomo!), che in quanto donna sposata porta la fede al dito e non se la toglie mai?
      Probabilmente tu risponderai che c’entrano (anche?) i centimetri di pelle scoperta – la suora indossa un certo tipo di abito mentre l’unico vincolo della donna sposata è quello di portare un certo anello a un certo dito – ma io ad esempio non la vedo affatto così. Dal mio punto di vista (e – credo – anche da quello delle suore) l’abito è un modo per manifestare al mondo la loro scelta, il loro status sociale; non so come esprimermi. Io lo vedo proprio come un segno distintivo, niente più.

      Giusto per capire il tuo punto di vista: e i sacerdoti che portano il clergyman?
      Lì non si tratta di coprirsi o scoprirsi, lì si tratta semplicemente di indossare un collarino bianco al posto della cravatta a righe. Percepisci anche questo, come segno di sottomissione, o è solo una questione di scegliere un abito più o meno coprente? 🙂

      1. Sarà il nome ma la pensiamo esattamente allo stesso modo 😉
        Il paragone con gli emo e la divisa di scuola era per lo stesso motivo, l’appartenenza e il senso di identità. Avrei potuto citare anche i tassì gialli! Spero che la suora si metta il velo perché il suo corpo appartiene a Dio e alla comunità religiosa, e non perché non deve essere un corpo, e che la vedova vesta di nero per onorare la scomparsa del coniuge e non per scoraggiare eventuali avances.
        Però è vero che per l’islam il velo serve a non sedurre e a coprire, e quindi a sottomettere nel senso che intendi tu.

        1. Sulle suore (verso le quali ho sempre nutrito grande simpatia), mi sento anch’io una Lucy e ritengo il loro abito sia una questione identitaria, comunitaria e rituale. Sulla vedova, però, a mio avviso Suibhne non ha tutti i torti: in alcuni contesti ancora oggi la donna è costretta a portare il lutto per non essere considerata dalla comunità una svergognata. E’ una libera scelta? Per qualcuna forse sì, ma per la maggior parte credo sia un condizionamento sociale. Sul velo islamico la penso un po’ allo stesso modo: ci saranno certamente donne convinte della loro scelta e felici di nascondere il loro corpo; ma in molti altri casi (si pensi a paesi laici come la Tunisia o l’Algeria, o a realtà socialmente avanzate come l’Iran) le donne, anche se fedeli all’Islam, non portano o non porterebbero il velo se non fossero costrette a farlo. Ma allora in questo caso entrano in ballo altri concetti, come la laicità, la modernizzazione, l’emancipazione femminile e il discorso si allargherebbe moltissimo

  4. Però guardate che il fatto che oggi le donne si facciano suora per scelta e che oggi l’abito delle suore sia vissuto da loro e da noi come un segno identitario, non contraddice il fatto che quel velo sia nato, quando è nato, come un segno di sottomissione, di camuffamento di un corpo imperfetto e colpevole di indurre in tentazione. Dietro, anche se non la vediamo più, c’è la stessa immagine della donna.

    Poi sì, è vero: il discorso andrebbe allargato moltissimo 😉

    1. ed è anche vero che oggi le donne sposate con cristo lo fanno, nella maggior parte dei casi, per libera scelta; un tempo, invece, erano spesso costrette (la monaca di monza insegna!)

      1. eh, ma quella lì infatti lasciava cadere dal velo, libera sulla fronte, una ciocca di capelli e Manzoni la considerava, non ricordo le parole esatte, un po’ zoccola per questo motivo. Anche per questo motivo, diciamo…

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