Quella notte gli angeli pisciavano troppo, sulla città degli angeli…

N.B. Poiché sono stato pesantemente redarguito perché “da una cazzata [fai] su una storia che non finisce più” e “d’altra parte dal dottore ci vanno tutti” e il tono è un po’ troppo esagerato, ho deciso di accontentare chi mi criticò e di scacciare ogni tono epico. Vado a incominciare:

Erano le due e trentacinque quando sentii che il telefono mi scampanellava in testa. Cazzo, detesto svegliarmi d’improvviso, il sole mi ferisce gli occhi se li apro di colpo. Mi alzai bestemmiando, feci cadere una sedia nel tentativo di cacciare dalla mia stanza quel sole odioso che qui in California riesce a rimbecillire anche gli studenti di Berkley. Non avevo fretta di rispondere, sapevo benissimo chi avrei trovato all’altro capo del filo, quindi alzai la cornetta e tossii nelle orecchie del senatore Mc Carthy tutto il muco che ero stato capace di produrre.

Certo, senatore. Le farò sapere domani. Senta, sa benissimo qual è il mio metodo, se non le piace può pure cercarsi un altro aiutante, con la cifra a quattro zeri che paga non dovrebbe essere un problema. E non si preoccupi per me, ho un sacco di lavoro arretrato di cui non vedo l’ora di occuparmi – guardai il piano della scrivania, ricoperto di polvere e mentalmente cercai di ricordarmi quanto tempo era passato dall’ultimo stipendio superiore a 50 dollari a settimana. Otto mesi, mi parve… – Quand’è così la smetta e mi chiami domani. Non così presto, però, a quest’ora lavoro. – Mi buttai sulla branda, presi dal comodino la fiaschetta di metallo, ingoiai una lunga sorsata di rabarbaro e mi addormentai di nuovo.

Da qualche mese ero infiltrato in un gruppo di persone che al senatore non piacevano affatto. Fino ad allora avevano goduto di una protezione molto in alto, ma stavano per commettere un errore che li avrebbe strappati alle loro feste di alcool e morfina per cacciarli nelle galere della città, braccio della morte forse, come Ethel e Julius Rosenberg. Quella sera, diceva il senatore, dovevano incontrarsi con una celebre banda di ladri comunisti assieme ai quali avevano in progetto qualcosa di molto, molto grosso. Il mio compito ovviamente era di impedire che si mettessero insieme. Per il bene dell’America e del mondo libero, ovviamente. Tutti questi “ovviamente” e i bla e bla da America The Beautiful sono del senatore. Niente di politico, per quanto mi riguarda. Se il KGB avesse offerto di più che le due casse di vodka, tutto sarebbe stato diverso e magari il mio compito, quella sera, sarebbe stato soltanto di… ma lasciamo perdere.

Della banda facevano parte Salomé, una ex attrice che da una ventina di anni, da quando Al Jolson si era dipinto la faccia e aveva cominciato a cantare da tutti gli schermi del paese, non aveva più ottenuto una scrittura. Si dice che Vidor la volesse al posto della Hayworth per il ruolo di Gilda, ma che Salomé si sia presentata al provino ubriaca fradicia. Beh, almeno più ubriaca della Hayworth. Da allora non si era più ripresa, e adesso viveva in una casa cenciosa con una chicana arrivata dopo la guerra da Tijuana, con la quale aveva messo su un certo tipo di commercio, se capite quello che intendo. La sua ultima fiamma era un giovanotto di Des Moines, Simon, che era stato attirato a Los Angeles dalla speranza di fare l’attore. Ma alla Unity Fair dove cercava di arrotondare lo stipendio da comparsa cuocendo pizze, aveva incontrato quella donna. Sapete come sono quelle femmine, nel giro di una settimana erano più inseparabili di Abbott e Costello. Lo disilluse subito, “Siamo in troppi ad avere gli stessi sogni, in questa città” e ora lui faceva l’antennista. Credo che spesso si chiedesse se non sarebbe forse stato meglio restare nell’Iowa a coltivare granturco con suo nonno.

Poi c’era Il Santo, chiamato così perché da bambino aveva cercato di stuprare la madre superiora dell’asilo. Da allora viveva randagio per lo Stato, quando gli andava bene tirava su due bigliettoni cantando canzoni catarrose da Nick’s, ma di solito viveva con il contrabbando di indivie e cavolini dal Belgio. Da giovane, dopo il tentativo di stupro e prima dello stupro riuscito, era stato una speranza della pallacanestro. Delusa.

Jena si era trasferito da poco da Savannah, Georgia, era il più giovane di tutti ma di gran lunga il più pericoloso. Era lui l’ideologo del gruppo, nella sua ipertricotica testa aveva escogitato un piano perfetto per saldare la piccola criminalità della città con la prospettiva rivoluzionaria dei Reds. Era lui che il senatore temeva più di tutti. Avevo il compito di impedirgli di agire in ogni modo, e state certi che non mi sarei fatto nessuno scrupolo a farlo. Anche perché, sebbene fosse così giovane, era una mia vecchia conoscenza, di quando ero ancora nella polizia di Atlanta. Brutta storia davvero, un sequestro terminato in un rogo in cui morirono due uomini e trentanove negri e che costò il distintivo a me. E anche i miei progetti di trasferirmi a Orlando con Dolores, una ragazza appena arrivata dal Brasile con un preoccupante quanto irresistibile irsutismo. E anche la mia agognata pensione. E Tremonti non è ancora ministro e soprattutto non qui, nel Golden State. Dannata Jena, lo odiavo più di Donald O’Connor. Io ho sempre odiato Donald O’Connor, da quella volta in cui, ubriaco di whisky e inebriato dall’odore di Desiré (una puttana di Ozona, Texas, celebre in tutta la contea per il suo unico sopracciglio), avevo tentato di parlare con un mulo così come lui faceva con Francis. Tutti i buchetti disposti a U sulla mia faccia sono il ricordo di quella serata. Dannato Donald O’Connor, lo odiavo più di Esther Williams. Io non ho mai saputo nuotare tanto bene, da bambino andavo a fondo. Dannata Esther Williams, quanta acqua clorata ho bevuto per cercare di sorreggere mia cugina Daphne in piscina, che cercava di imitarti in Bellezze al bagno.

E poi c’era Julia, cresciuta nelle strade meno raccomandabili della città, che a sei anni aveva conficcato una forchetta negli occhi di una bambina per poi giocare a biglie con i bulbi oculari. Adesso viveva ricattando gli uomini sposati che si portava a letto e vendendo foto scandalose a giornali scandalistici. A volte mi chiedo come facessi a non vomitare, in mezzo a quei bastardi.

Alle sette mi svegliai, il sole era ancora alto sebbene delle nubi nere avessero iniziato a oscurarlo. In un attimo rammentai il mio odio per quella città, Esther Williams, Donald O’Connor e la Jena. Già, la Jena. In un’ora dovevo trovarmi in casa di Salomé, misi nella tasca destra della mia giacca la fiaschetta di rabarbaro, nella sinistra la pistola che il capo in Georgia si era dimenticato di ritirarmi, e salii sulla mia Buick. Goccioloni di pioggia iniziavano a impastarsi con la polvere sul mio parabrezza.

Parcheggiai vicino alla topaia della spacciatrice, salii e trovai Salomé e Simon che impastavano pizze. Li salutai e mi buttai su una sedia, stappando una bottiglia di birra con i denti di un cane pulcioso (insistente ma silenzioso). Poco dopo arrivarono gli altri. L’atmosfera era tesa, c’era anche il ragazzo della chicana, che parlava una lingua che nessuno di noi comprendeva. Anche lui era nel mondo del cinema, o almeno questo era quello che diceva in giro. Le occhiaie e i suoi discorsi a proposito di doppiatori italiani di cartoni animati mi facevano pensare che fosse più amico della morfina che di De Mille.

Dopo la settantesima pizza tutti eravamo un po’ stanchi, devo dire che l’idea approssimativa delle dosi per pizza di Salomé mi aiutò parecchio. Jena però era ipercinetico – Hey ragazzi, dobbiamo andare a vedere la Banda Bassotti – Li chiamava così, senza il minimo pudore. Tutti sembrarono cedere e immaginai la canna di una pistola che premeva sulla nuca, sentii nelle orecchie la voce del senatore che al telefono aveva esultato in crescendo: “God Bless America. / Land that I love / Stand beside her, and guide her / Thru the night with a light from above. / From the mountains, to the prairies , / To the oceans, white with foam / God bless America / My home sweet home.”. Sentii anche le trombe che trombeggiavano nella mia testa e soprattutto mi chiesi “Arrivi a fine mese?“. No, non ci sarei arrivato. Avevo ancora da pagare le rate del pelapatate elettrico e della mietitrebbia. Mi decisi a intervenire: – Hey, ragazzi… calmi… stanotte gli angeli pisciano troppo sulla città degli angeli -.

Sì, in effetti piove – disse Julia. – Già – disse il Santo. – Bah, per me è uguale – disse Salomé. Jena si sentì braccato, lo avvertii nel suo sguardo fiammeggiante. Lessi sulla sua fronte “Forte il pugno che colpirà in ogni paese in ogni città chi cammina sopra i corpi, violenta le culture, cancella i ricordi. Forte il braccio che alzerà la bandiera rossa della libertà“. Ma si sentì braccato, come un fottuto indiano in un film di John Wayne, e non disse niente.

Restammo in quella lurida cucina ancora un po’, poi ritornammo tutti a casa.

Salvare la democrazia non fu troppo difficile, quella notte.


P.S. Vedete? Meglio l’epica delle piccole cose, convinta?

Per i commenti originali, vedere qui

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